Si tratta di un libro su un “popolo” che a me era completamente sconosciuto: gli zoroastriani.
Chi sono? Intanto la parola indica una fede e non una etnia e cioè sono coloro che basano la loro religione sugli insegnamenti del profeta Zarathustra (religione che in tempi passati era la più diffusa nell’Asia Centrale).
Come si evince dal libro, che ha inizio nel 1920, le comunità zoroastriane si sono ridotte moltissimo e infatti ci ritroviamo a seguirne una piccolissima, formata da una famiglia: padre, madre e figlio.
La storia si trasferisce dalla Persia all’India per una forzata migrazione (o piuttosto esilio) di questa famiglia dove qui troveranno però la loro fortuna e l’autore decide che la storia si deve seguire con gli occhi del figlio Shapur e del nipote Zairos.
Si sa che quando l’ambientazione è “orientaleggiante” sembra che la storia diventi anche più “esotica”. Ma il mio grosso limite quando leggo scrittori indiani è che molti vocaboli (che rimangono scritti in lingua originale e in corsivo) non trovano una traduzione e per questo perdo un po’ per strada tutta questa “magia”.
Molti trovano anche interessante la descrizione della sempre presente suddivisione in caste della popolazione. Mentre io la trovo irritante perchè l’impressione è quella che sotto questo punto di vista non sembra essere cambiato assolutamente niente.
Per questo motivo i personaggi principali, che sono molto pochi, si potrebbero tranquillamente trovare, con tutte le loro storie, problemi e pensieri, oggi come cento anni fa.
La storia d’amore tra due persone di caste diverse, che è un po’ il filo conduttore di tutto il libro, ne è la testimonianza e la triste, come sempre, realtà ancora oggi.
